All is full of love

CHRIS CUNNINGHAM

Una volta, ovvero fino a pochi anni fa, quando un film era pure action che non finiva da nessuna parte, o un insieme di immagini patinate e vuote, era paragonato al videoclip, con una connotazione totalmente dispregiativa. Oggi la situazione è cambiata: proprio quest’universo riesce a rompere la muffa delle immagini codificate. 1975: si può fare risalire a questa data la nascita del videoclip, con Bohemien Rhapsody dei Queen. La band inglese decise di promuovere il singolo con un filmato musicale. In sole quattro ore e con appena 4500 sterline di spesa fu girato un videclip, studiato appositamente per la tv.

Il cocktail tra musica ed immagine si rivela vincente, soprattutto per il pubblico più giovane che ha familiarità con la tv. Le immagini cavalcano la funzione emotiva della musica, esplicitano il testo di una canzone e le sensazioni in lei racchiuse. Questa unione tra suono ed immagine viene suggellata, nei primi anni 80, dalla nascita dei canali tematici, che trasmettono video non stop. Il pubblico si affeziona all’americana MTV, che porta sugli schermi il successo delle star del momento. Thriller di Michael Jackson dell’83, è molto più di un semplice mezzo di produzione: dura quattordici minuti, usa effetti speciali, è una piccola opera d’arte. Le immagini si emancipano dalla musica nei video di Madonna, che promuovono i suoi continui cambi di look prima delle sue canzoni; cresce il successo, migliorano le tecniche, aumentano le spese. Scream di Janet e Michael Jackson è il video più costoso della storia: quindici miliardi di lire! Ciò che caratterizza i clip del nuovo millennio sono la tecnologia digitale, sperimentazione, libertà dell’immagine. La musica si lascia conquistare dalle virtù del computer: gli effetti digitali corrono in aiuto di chi col videoclip vuole cercare di stupire. Mostrato e premiato nei festival del cinema, il videclip si eleva ad opera d’arte. A cimentarsi coi video non sono mancati registi famosi : nel 1987 Martin Scorsese dirige Bad di Michael Jackson, Spike Lee Le cose della vita di Eros Ramazzotti, Roman Polanski Gli angeli di Vasco Rossi, mentre con altri videoclip, hanno intrapreso una brillante carriera CHRIS CUNNUNGAM, SPIKE JONZE e MICHEL GONDRY. Ai tre video maker è stato dedicato un dvd per la serie « THE WORK OF DIRECTOR” contenente i loro lavori migliori. Di Jonze troviamo ad esempio, Sabotage diretto per i Beastie Boys, qui impegnati in serratissimi inseguimenti stile « seventies » come poliziotti di una serie televisiva del tempo, o Buddy Holly in cui i Weezer si esibivano in un locale Arnold del telefilm Happy Days sotto gli occhi ammirati di Fonzie e Ricky Cunningham. Di Gondry, musicista prima di essere regista, clip come Fell in love with girl dei White Stripes e Come into my world in cui il video maker ha moltiplicato la pop star tascabile Kylie Minogue. Musicista anche lui, autore di spot pubblicitari pregiudicati e memorabili (Mental Wealth della Sony ha vinto, nel 2000, il premio per gli effetti speciali); Cunningham è uno dei più visionari e fantasiosi registi di videoclip ma soprattutto insigne creatore di mostri.

La sua carriera inizia disegnando cose spaventose per il film Cabal (Barker, 1990); ha lavorato poi con David Fincher per la realizzazione dei mostri per Alien 3, creato l’impressionante bambina aliena che pubblicizzava la Playstation qualche anno fa, è stato anche convocato da Kubrick in persona per disegnare il bambino robot di A.I Intelligenza Artificiale. Ma la collaborazione col grande mostro della regia non lo ha divertito quanto realizzare il suo primo videoclip per gli sperimentatori elettronici Autrechre, dopo il quale ha capito quello che gli piaceva realmente fare : deliranti clip infarciti di stranezze, transbiomorfosi, androidi, clonazioni, scenari da science-fiction parossistica commentati dalla migliore “braindance music” del nuovo millennio.

La macchina da presa di Cunningham scandaglia nel buio fino ad annullare gli ordini di umano ed artificiale. E’ una macchina che cerca ectoplasmi, estremità virtuali, l’imprevedibilità generata da un’epoca in cui tutto è esposto agli occhi, ogni cosa è visibile. Utilizza il morfing per ridefinire o assemblare i corpi, aver scritto lo storyboard lo fa sentire più tranquillo prima di girare, le scene vengono montate usato, come programma, AVID, mentre la macchina 35mm gli serve per creare immagini che siano pittoresche e allo stesso tempo astratte. L’utilizzo del grandangolare si nota soprattutto negli scatti in cui si passa dal particolare al globale e viceversa. Corpo e tecnologia, membra ed oggetti carichi di elettricità: il linguaggio è forte, sfrutta il desiderio e l’angoscia, le nuove socio patologie quando gioca con un icona come Leonardo Di Caprio nello spot commissionato dalla Telecom, o con la modella aliena Fi-Fi inserita in un contesto da reality show nel commercial della Sony Playstation. Citando Gilles Deleuze, è insieme all’epistemologie dei modelli che nasce la pratica del “SIMULACRO” e più esattamente quando il criterio della prospettiva da luogo a modelli regolabili sulle proporzioni dell’illusione. Allora le copie del reale cosi ottenute, giungono a travalicare il reale stesso, riferendosi piuttosto a un’Idea della Realtà. In sostanza sarebbero i Simulacri le protesi di una macchina desiderante impazzita, il Soggetto, macchina che vede le sue articolazioni, sia scopiche che libidinali, ridotte allo stato di flusso. Deleuze indaga sulle relazioni tra le gerarchie costitutive della soggettività e le strutture del potere, prefigurando dialetticamente la destrutturazione dell’uno e dell’altro, grazie al progressivo generarsi, per mutazione, di un ”Corpo senza Organi” . Quest’ultimo recupera sinestesie, espansioni e relative liturgie di suscitazione “in presenza” dell’immaginario, mentre mina ogni legalità ed autorità del Soggetto. E’ noto come l’Immaginario sia il campo delle tendenze mimetiche e dunque spinga alla produzione della”copia”. Per esistere occorre fin dall’inizio della storia del Soggetto farsi figura, nel senso flagrante di ostentazione figurale. Il corpo non è solo un dato biologico, ma un campo d’iscrizioni di codici socio culturali. E’ il luogo di una duplice conoscenza: da un lato è la somma complessa degli organi, parti organiche Staccabili, dall’altro è la soglia della trascendenza del soggetto, corpo come superficie libidinale, schermo di proiezioni immaginarie. La “perversità” dell’immagine attuale, tecnologica, consisterebbe nella confisione che essa è in grado di instaurare tra immagine e realtà. L’immagine tecnologica è quindi in grado di precedere il reale e di sovrapporsi ad esso in quanto produzione di simulacrità. Ne consegue che l’immagine può azzerare il reale in quanto può modelizzarlo a suo profitto, o a mutarlo addirittura in copia della simulacrità, il cui carattere “ sacro” è assicurato dalla sua istanza. Di assoluta realtà e presenza. All’immagine simulacrale non c’è limite perché essa non conosce ne sesso ne morte, ma una “ pullulazione indefinita”.

Il corpo viene piegato ed utilizzato per asservirsi a logiche di produzione e consumo, viene, citando Deleuze, territorializzato. Se si considera il corpo come l’incontro di materiale organico e meccanico, allora il meccanico può essere considerato come un’estensione o lo sviluppo del corpo. Quest’ultimo inizia a divenire elemento mitico, le sue protesi, i suoi significanti dispotici.

Cunningham è un genio rimasto indimenticabile per aver attaccato la testa di Aphex Twin sul corpo di una prorompente ragazza nel video Windowlicker e sui corpi di bambini in Come to daddy. La sua vena folle, caratterizzata però da grande raffinatezza, lascia il posto ad atmosfere più romantiche in Only you dei Portishead e piene di effetti speciali in Frozen di Madonna, per poi tornare a colpire con l’uomo che si spezza di Afrika Shox e con la bambina pazza di Come my selector che, per fuggire da un manicomio in cui è rinchiusa, trasferisce il cervello di un cane nel corpo di un uomo e vice versa. Infine All is full of love di Bjork racconta la nascita di due creature meccaniche che si innamorano. Oltre ai videoclip e alle pubblicità ha realizzato anche opere non commerciali. In Monkey drummers, una strana creatura con due gambe, sei braccia ed una testa di scimmia suona la batteria, mentre in Flex due corpi si amano e lottano fluttuando in uno spazio nero tra splendidi giochi di luce. Dopo Light aircraft on fire dei The Auteurs (1996), 36 degrees dei Placebo, The next big thing di Jesus Jones (1997) realizza il suo capolavoro assoluto: Come to daddy (1997) per Aphex Twin. Il clip si svolge in una squallida periferia londinese dove un innocente vecchietta porta a spasso il suo cane. Su un televisore abbandonato compare un orribile viso deformato che, uscendo dallo schermo, si materializza in uno scheletrico ed urlante mostro-Aphex. La vecchietta è sull’orlo di un infarto mentre, intorno a lei ragazzine ben vestite, ma col viso barbuto e sorridente, saltellano gioiose. La loro corsa al ”ralenty” s’inserisce su un improvvisa interruzione del ritmo sfrenato della musica che lascia il posto ad una delicata filastrocca , mentre le urla coincidono coi suoni più aggressivi. Un clip geniale e perfettamente realizzato che ha reso Cunningham immediatamente famoso, dando anche una divertente connotazione all’immagine del compositore Richard James. Nel video successivo, Windowlicker realizzato per Aphex Twin, Cunningham pensò di spingersi ben oltre e di ”montare” il suo viso barbuto su un formoso corpo dalle curve mozzafiato. Qui James interpreta la caricatura della rockstar che si affaccia da una interminabile limousine e lascia senza fiato due spocchiose e sexy ragazze che avevano appena liquidato due squallidi abbordatori. Non appena salgono in auto, le due bellezze mostrano le loro sorridenti facce barbute mentre lo palpeggiano allegramente. Il clip si conclude con un balletto coreografico con sei assurde creature ermafrodite, ironica critica nei confronti dell’ostentazione del lusso e del fondoschiena dei banalissimi clip (di solito della scena hip-hop) che spesso ci tocca vedere. Il ritmo si fa invece più pacato nella splendida Only you (1998) dei Portishead, dove Beth Gibbons ed un ragazzino fluttuano nell’aria come fossero sott’acqua. I movimenti sono un tutt’uno con la musica e sui passaggi scratchati del brano anche i fotogrammi fanno marcia indietro. Famoso e pregiatissimo, anche se forse il meno originale, Frozen (1998) di Madonna che, dispersa nel deserto e avvolti in neri veli fluttuanti , assume le sembianze di vari animali. In Afrika Shox di Africa Bambaataa, un disperato mendicante perde pezzi di arti sotto i non-sguardi indifferenti dei passanti. Infine ecco il video realizzato per Bjork All is full of love (1999).

Accompagnata da un tappeto di archi distorto, la macchina da presa ci svela un ambiente asettico dove Bjork giace trasformata in un corpo artificiale in costruzione. Un suono meccanico come l’avvolgersi nel nastro magnetico comincia a scandire il lavoro inesorabile delle macchine. Ma i ritmi disumani dell’automazione non possono fermare il tenero bacio che l’androide scambia con la sua copia seriale. Come in un rito purificatore, i getti d’acqua celebrano l’unione degli organismi cibernetici. Il corpo moderno recupera il residuo della propria umanità confondendo il limite tra vita e materia inorganica. Insomma, per Cunningham è difficile lasciare le cose nella loro forma naturale, ma dopotutto si tratta di inevitabile… ”deformazione professionale”.

THE WORK OF DIRECTOR.

Il primo video, per Autreche, lo filma nel 1995. Da un po’ di tempo aveva perso interesse nel dedicarsi esclusivamente agli effetti speciali. La svolta si ha quando viene a conoscenza del fatto che Kubrick si accinge a realizzare il film A.I. A questo punto Cunnungham chiede al capo del FX Workshop di poter collaborare. Il film lo impegna per circa un anno, lavorando nei ritagli di tempo al clip. Anche in questo caso è stato lui a convincere i componenti di Autreche di farglielo girare. Non avendo ancora l’esperienza di girare da solo, va in una società di produzione, l’Activate, chiedendogli di aiutarlo. Alla fine gira 10 minuti di ciò che aveva nella sua mente, senza sapere cosa stesse facendo. Capì quindi che era più difficile di quanto credesse. Il risultato fu milioni di anni luce lontano da quello che aveva immaginato. Infatti all’inizio pensava di poter tradurre facilmente pensieri in movimento che andavano a tempo con la musica. Si procura pezzi di materiale industriale e costruisce dei modelli nel giardino di casa ed inizia a fare un video fuori dal metraggio. Il risultato però non fu apprezzato dalla band. Da questo momento mette da parte il ruolo di film maker e si dedica alla direzione di storytelling, alla tecnica dell’illuminazione nella cinematografia, che poi saranno alla base dei video futuri. Ottiene idee camminando per strada, ascoltando musica, spesso si aiuta con lo storyboard: inizia da loro finendo però con la mente su infinite strade. Lo fanno sentire più rilassato nel momento di girare. Ha iniziato come scultore, perciò si interessa molto all’anatomia e soprattutto alle protesi: per questo motivo predilige fare film sui corpi.

1995 APHEX TWIN – COME TO DADDY

L’idea per questo clip nasce da un fatto accadutogli quando era ragazzo. Un giorno un bambino più piccolo lo rincorre con un martello e lo prende in giro. La cosa umiliante è che ci sono delle ragazze che guardano e ridono. Inoltre il leader del gruppo in quel periodo usava nelle sue musiche voci di bambini e metteva la sua faccia nelle copertine. Il video è una combinazione di tutte queste cose. Per fare i volti dei bambini ha utilizzato maschere di silicone e lattice. Il video è girato in un quartiere periferico di Londra. Il cane, molto più grande della donna anziana, potrebbe potenzialmente strattonarla. Però quest’aspetto che può sembrare assurdo, era perfetto per questo video: una vecchia piccola, indifesa che ha un cane feroce, mostruoso,dalle dimensioni di un cavallo. Oltre i bambini, nel video si vedono dei nani e questi piccoli ”bimbi” dalle braccia pelose, è una delle idee preferite di Cunningham. Quando inizia a montare capisce che ci si trova davanti a qualcosa di eccezionale, ben lontano del precedente Autreche. Molte televisioni però censurano questo video, altre invece, come MTV, lo trasmettono a tarda notte. Fin da piccolo Cunningham era solito staccare la testa ai pupazzi e costruire dei mostri, ai genitori queste creazioni sono sempre piaciute quindi si meravigliava del perché la gente si offendesse alla vista dei suoi video.

1997 PORTISHEAD – ONLY YOU

Era molto felice che gli avessero commissionato questo video, poiché la canzone aveva un ritmo cinematico, visuale, e raccapricciante. Egli considera le musiche cosi come un vero e proprio dono. L’idea di questo videoclip nasce da un sogno che Cunningham faceva da piccolo. Si trova a camminare lungo la strada del villaggio in cui è nato ma non riesce a respirare. E’ come se si trovasse in piedi, con degli stivali pesanti, su un materassino sul mare, ed inizia a sprofondare pian piano. Man mano viene preso dal panico nel disperato tentativo di risalire in superficie. Questo sogno lo aveva rimosso ma è riemerso quando ascolta Only You. La sua intenzione era quella di ricercare un ambiente surreale, che dava senso al presentimento presente nella canzone. Filmando sott’acqua avrebbe eliminato i punti più luminosi negli occhi, la consistenza della pelle diviene più smorzata e si ha, quindi, un effetto cadaverico. Tutto ciò stava bene con l’effetto che dava la canzone.

1998 MADONNA – FROZEN

Madonna lo chiama a girare Frozen dopo aver visto i suoi precedenti lavori. Secondo Cunningham, è stata coraggiosa a chiamarlo per il lancio del primo singolo. Ciò lo fa sentire onorato ed eccitato allo stesso tempo. Anche questa canzone era cinematica e questo lo aiutò a fargli nascere l’idea. Quella iniziale prevedeva una scultura di corpi nel deserto, tutti multipli di Madonna. Tutti dovevano modificarsi fino a divenire corvi e cani. I suoi vestiti, gonfiati dal vento, dovevano fare uscire tante lei. Ciò che voleva ottenere era lo sfondo e lei, senza più nulla. Madonna vuole incorporare dei vestiti gotici, molto in voga quell’anno, che piacciono anche a lui. Questi creano un atmosfera irreale, egli non avrebbe smesso un attimo di guardali. Ma ancora non era soddisfatto. Pensò di eliminare alcune scene girate ma Madonna si oppose. Egli avrebbe lasciato solo l’immagine di lei che canta nel deserto, danzando attorno al mantello. Questa esperienza gli fece capire che preferisce non lavorare più per grandi artisti, ma di essere libero di prendere certe decisioni, tagliare, modificare a suo piacimento.

1998 LEFTFIELD & AFRIKA BAMBAATAA-AFRICA SHOX

Video impegnativo, filmato dopo un anno di trattamento ed andato in onda dopo 18 mesi. L’idea gli era venuta in mente ben 4 anni prima: un tizio che sembrava una sorta di vietnamita, uno zombie che parcolla per le strade di New York, uno che aveva a che fare con un rito Woodoo, una maledizione ricaduta su se stesso, facendogli perdere pezzi di… arti. Dopo aver sentito la musica, ha associato questa alla città di New York, forse per l’eccitazione che ambedue gli fanno provare.

1998 SQUAREPUSHER – COME ON MY SELECTOR

L’idea per questo video è stata cambiata parecchie volte. Cerca prima di creare un cartone animato, in cui i protagonisti erano un gatto ed un cane, che dovevano rubare la gelatina dal frigo e rincorrersi. Ma un giorno prima del ciak decide di cambiare idea, optando per l’asilo di bambini folli che si scambiano cervelli col cane. Deve molto ai manga anche se a lui non piacciono tanto.

1998 APHEX TWIN – WINDOWLICKER

Ascoltando la colonna sonora si convince di poter fare un video più commerciale per Aphex. L’ultima metà del video rasentava la pornografia, con tutti i sederi delle ragazze, ma a Cunningham l’idea piacque molto. Era perplesso sull’utilizzare ancora una volta lo scambio delle teste sui corpi, ma poi decide di farlo, mettendo quella barbuta di Aphex sul corpo prorompente di una ragazza. Per il balletto chiama Bruce Patterson che idea i tap routine. Poi tappezza la città coi manifesti di Aphex col corpo di donna, ma questa pubblicità non ottiene l’effetto sperato : la gente si scandalizza e le tv musicali decidono di non mandarlo in onda. A questo punto il lavoro di Cunningham è conosciuto in tutto il mondo e dalle case di produzioni. Artisti vari lo chiamano, ma a lui non interessa fare video per loro, ma solo per artisti con cui si diverte e per le musica che preferisce.

https://www.youtube.com/watch?v=SIOiqyC9vQE

1998 BJÖRK – ALL IS FULL OF LOVE

Inizialmente vorrebbe non girare questo video poiché già molti registi lo avevano fatto ma con scarsi risultati, rischiando quindi di compromettersi la carriera. Si convince però a farlo quando sente la musica che lo ispira molto. Non appena ha il primo montaggio pronto lo manda a Björk che rimane entusiasta come se avesse ricevuto un regalo di Natale. A questo punto le persone che avevano disprezzato i suoi video precedenti, acclamarono quest’ultimo.

https://www.youtube.com/watch?v=AjI2J2SQ528

2000 FLEX

Cunningham vorrebbe lavorare ancora una volta con Aphex Twin e l’occasione si presenta con Flex. Stavolta invece di girare un singolo video, disegna dei ”pezzi” che possono adattarsi coi suoni. Qualcosa di astratto e anatomico. Ha trovato le stesse difficoltà presenti in Autreche, girando con una pesante macchina 35mm, cercando di ricreare un’immagine che fosse pittoresca ed esaltante senza mai riuscirci. Alla fine il lavoro fu più che buono e venne inserito nell’inedito che uscì in dvd.

https://www.youtube.com/watch?v=eb2kKjnCA6A

2005 RUBBER JHONNY

Una delle ultime creature del vulcanico artista, è un esserino deforme di nome RUBBER JHONNY (che in gergo inglese è il nome che si da al preservativo…), protagonista di un video che dura 6 minuti e di un libro che raccoglie disegni e fotografie prodotti dalla Warm Film, che si è vista però rifiutare la stampa dall’editore italiano, poiché l’opera dichiarata troppo oscena. Anche in questo lavoro, Chris Cunningham porta avanti la propria fascinazione per l’elemento fisico e per il movimento del video in assoluta sincronizzazione con la musica, che ha richiesto un lavoro più vicino all’animazione che al montaggio classico. Inizialmente destinato ad essere un trailer di 30 secondi per il nuovo album di Aphex Twin, il “piccolo Jhonny” è diventato pian piano un lavoro autonomo, che nelle intenzioni di Cunningham doveva diventare un multimedia comprensivo anche di sculture, ma che poi si è dovuto limitare al video e al libro annesso. Jhonny racchiude in se tutte le manie del suo creatore : idrocefalo e deforme, inchiodato su una sedia a rotelle, è tenuto segregato in un semi interrato e si trastulla in viaggi mentali segnati dalla musica frenetica di Aphex Twin. Il suo corpo, già segnato dalla mutazione, si muove di scatto nella semi oscurità, si torce come un elastico, si alza dalla sedia a rotelle e sembra diventare un tutt’uno con la musica, per poi spiaccicarsi sulla telecamera e dimenandosi in ancora ulteriori smorfie mostruose. Ad assistere a tutto ciò, una compagnia, un cagnolino dalle sembianze non troppo terrestri. Unica presenza… la voce fuori campo.

2010 GIL SCOTT-HERON  – NEW YORK IS KILLING ME

Dopo questi video che hanno scandalizzato, shoccato, incuriosito il mondo intero, Chris Cunningham si accinge a dirigere un video per Gil Scott-Heron, dal titolo NEW YORK IS KILLING ME. Anche questa volta ci si aspetterebbe il solito Cunningham, che qui invece stupisce con la sua ”sobrietà”. Il video è ambientato dentro una stazione della metropolitana, con delle luci rosse di allarme, il volto di Scott-Heron in sovraimpressione, davanti questa metropolitana che non cessa di passare a tutta velocità, ambiente sotterraneo ed ostile, in una città, New York, sotterranea, lugubre, che da quasi la nausea con l’incessante andare dei vagoni dei treni. Si può ben dire che in quest’ultimo lavoro, Cunningham è stato minimalista rispetto alle altre opere, ma tutto ciò al profitto di un estetica lugubre, tipica della cinematografia del “noir”. Questo clip segna un’altra tappa fondamentale nella celebrazione del video maker, in quanto l’opera è stata esposta, per la prima volta, al MOMA di New York.

Sonia Trapani

TV journalism & GoPro : interview of Trevor Lloyd (BBC)

TV journalism & GoPro : interview of Trevor Lloyd (BBC)

It’s very surprising to see how GoPro cameras are used in various ways : creation, sport, drones… And its versatility doesn’t seem to have limits. The little cameras from Woodman Labs are now providing images for the most professional channels in the world. Trevor Lloyd is a BBC cameraman who’s using the GoPro 3 Silver edition with LCD touchscreen as a second camera. Read his brief resume and very interesting GoPro tricks :

I’m graduated with a degree in English literature from Leeds University, stayed on to do post-graduate diploma in Broadcast Journalism. I joined the BBC World Service in 2008 after a number of facilities, technical and studio jobs in the UK independent sector. I left the studio work behind 3 years ago when the opportunity to become a shoot edit came up. It’s the job I’ve always wanted, it just took 10 years to get there! I work mostly for the BBC’s foreign language services (Arabic, Persian) and shoot news, docs, lifestyle features, music and magazine programmes. I’m based at New Broadcasting House in Central London, but work wherever they send me!

B_Q1rzaUwAMQ-Xv.jpg_largeSo, the GoPro is the second camera I always have tucked away in the box.

There are two main ways I use it. Mostly it is mounted on the hood of my main camera and in its widest setting. This gives me a synchronous wide shot that I can use cut into the main shot I’m taking on my shoulder camera. This can be particularly useful in busy news events, where the chances of getting a wide shot are limited. I’ve mounted the camera as near to the centre as possible to allow for as much variation as possible. Sometimes the composition of the shot is a bit compromised, but because it is so wide, it doesn’t matter so much. I’d like to use some sort of ball mount for the camera so I can easily bias the shot to the left or right, but so far I haven’t found one that is lightweight or reliable enough. It’s one thing to reach out with one hand and tilt it up or down to adjust the horizon when you’re filming, but another to adjust it in all planes and then lock it off.

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The other way I use it is to offer a wide shot in interviews. I often mount it on a lighting stand with the camera set to its narrowest field of view. Often I will position it opposite the main camera to give an over-the-shoulder 2-shot favouring the interviewer. This way it can be used for questions, reactions and to show the location of the interview. If we have the luxury of two cameras, then the GoPro can be used to offer a more traditional wide shot. However, even on its narrowest setting, the image is still very wide, so either the camera has to be quite close to the subjects, or you use it to show all the lighting and other behind the scenes elements of the shoot. Sometimes this isn’t appropriate to show, but in recently I’ve seen more of these types of shots being used, so I think attitudes are changing. I recently saw a fairly high profile interview between the president of Iraq and BBC correspondent Lyse Doucet where this was the case. A few years ago this would have been limited to lifestyle/youth features, but deemed inappropriate for high ranking political figures. I think this change is interesting in its own right. A decade ago, producers and engineers were very concerned with having matched cameras for these kinds of shots. Having a handheld DVcam as a cut away was limited to MTV. Now I think audiences are more attuned to this. Leaps in the affordability and capability of things like DaVinci Resolve or even the colour correction tools in Final Cut Pro X mean it is easier to manipulate the images to cut together well.

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I tend to use the GoPro more when I am cutting the piece I shot myself. On a practical level, getting pictures into the BBC’s video server (it’s called Jupiter and is based around Quantel systems) from a GoPro, or anything else that uses a h.264 codec, isn’t straightforward. Since FCPX can deal with it without the need for transcoding, and then can quickly and easily sync it to the shots from the other camera, it makes it very easy to use in the edit. Just to explain, I create a multicam clip in FCPX consisting of just 2 clips, my main PMW400 and the GoPro. I then treat this as though it is just the main camera when I review with the journalist and cut it for editorial content. Once this is done I then have sync’d cutaways available at the stroke of a single key! I find it much quicker to work this way, than to go back and find the shots and then drop them in.

My main complaint about the GoPro, and I’m not alone in this, is that you can’t lock the exposure. The camera is at its weakest in low light, where it tries to lift the exposure and gets pretty noisy very quickly. It would be a real help to override the auto exposure in situations where you are lighting creatively.

We hope that the next GoPro will be able to lock the exposure. Nevertheless, one thing is sure : the camera stimulates people to increase its possibilities, for instance the Canadian rib cage from Back-Bone or the French stabilizer from Slick. Created in 2002, the little camera has changed the routine production in a few years, it’s maybe just the beginning.

https://vimeo.com/104842049

Stève Albaret

ruby

EMMA ALLEN’s animated dream

A year ago, we discovered the beautiful RUBY, a 75 seconds animated film. The length is often a real handicap for shorts because of the difficulty for considering it a cinematographic work, ignoring its quality. It’s also really hard to make it visible to the potential audience. Despite of its basic animation techniques, Emma Allen’s short film conquered a big audience thanks to its poetry and great mood. Let’s talk with Emma, talented make up artist with great skills, ideas and heart.

Can you explain your desire of make up animation?

I wanted to bring body painting to life, to make it interact with the subject and to tell stories. So I started experimenting a few years ago, maybe 5 years ago, playing around with a snappy camera and very patient volunteers, developing the animation techniques.

Can you please give us a brief resume of your professional career?

From 16 I worked in a costume shop. After school I moved into fashion and costume, assisting for magazines and films. I also used to have a market stall selling my art at the weekends. I took up face painting as a side line one summer, taught to me by a friend. After 2005 I moved to Sri Lanka started a charity art project. I took my face paint with me and painted too. All along the way, I have had various bar/waitress/reception jobs dotted in between, to keep me afloat. In 2010, I moved back to London and since then worked full time as a face and body painter, SXF make up, artist and sewing teacher. I also make props, back drops and clothes. I still switch between these mediums depending on the season and where the work is.

We were very impressed by Ruby, how did you do this film?

Thank you so much. I’m so pleased you liked it. It’s a stop motion face paint – so all in all about 750 photos, all with slight changes to the make up. I filmed it on myself, with a light and camera set-up around myself and to one side my face paints and a mirror. It took 5 days in total including set ups and bits going wrong and re-shooting them. I had a very sore face at the end of it !

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The « death » theme is beautifully « mis-en-scene » thanks to your body painting technique, can you explain it?

When looking for a story that I could tell entirely though make up and on the face, I felt this would work well. Around that time I lost a close family member so I was thinking a lot about our mortality and that journey. The sensitivity of the topic is partly why I used myself as the subject.

The sound design is also beautiful, it creates a deep mood and make us feel like we’re travelling in time.

It’s actually made by Alex Try, who edits my films and sometimes does the sound. He did a great job on Ruby. The sound lends so much to the feeling of it.

Alex Try : The intention was to keep the sound design minimal so as not to distract from the visuals. We wanted the sound to build on and enhance the animation as opposed to dictate the mood. We kept all the samples in line with the nature theme. Avoided ‘digital’ sounding sounds, we layered up rainforest and weather samples to build the atmosphere. The idea behind the chanting vocals was to hint at the religious connotation of the reincarnation theme, without (hopefully) being to on the nose.

How did Ruby made its way on internet? (vimeo, youtube, zap2spion, etc.)

I entered it into a lots competitions, one eventually got back to me and it was an online voting system so that’s the first place it launched on that site and facebook, that was when I could see peoples initial reactions to it.  After that I sent it around a few sites, no one responded for a long time. A few months later after almost giving up on promoting the film, I had my first exhibition of body painting images coming up. My press release included a link to the film. One website called ‘Incredible things’ picked it up and then it spiralled from there.

It has been shown in cinemas? Festivals?

It has been in a several festivals including London Short Film Festival, BRIC in New York, Très Court International Film Festival in Paris and Fargo Film Festival.

Do you have body painting animation models?

I have some very patient friends who have modelled for me regularly and so know how tricky and time consuming it is – modelling for the animations can be very frustrating. That’s why on the long or more complicated ones like Ruby or Blink I do it on myself as I feel bad to put somebody else through that.

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Are you planning to make other stop motion films?

Yes, I have made three since Ruby, one is another one minute film but is still in the editing process as its a slightly different format the others. I have two in my head at the moment. One I’m shooting in the next couple of months so it should be out later in the year.

Even if your photo work is really impressive, your videos are totally fresh because of your way to tell stories with bodies and nothing else, it’s maybe the most organic cinema we’ve ever seen, what do you think about that?

Thank you! It encourages me to keep making these films. I do enjoy making still images, but I do particularly enjoy the storytelling and playful aspect of the animations. Saying that, I have another still image project that includes stories in still images, I interview cancer patients who have lost their hair in chemotherapy, and then design a paint for their head based on their experiences.

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Is your commercial work interfere with your personnal work? Is it easy to stay honest in your own vision?

Yes it does interfere and it is hard to stay honest to your vision. When I made Ruby, I just made it because I wanted to, I didn’t tell any one before I made it, the story line or what I was planning or anything. If no one saw it, it was fine as I just wanted to go through the emotions of making it. To be totally honest, after the attention that Ruby received it is harder to find that freedom again and also it’s tricky to allow yourself the time to invest in a personal project. There’s always something else more urgent to do and it’s easy to get caught up in what people might think if they see it of this or that. At the moment, I find very tricky to make a film with too many inputs to please everyone, the ideas get diluted. I have a couple of films in my head that I have been developing for a while. Now I have to take myself away and allow myself the time to get lost in them, on my own.

You also have a charity action which is link to art, can you explain it to us?

It’s called « The Card Project » and it’s an arts charity for disadvantaged kids in Sri Lanka. I started the project in 2005, after the tsunami, doing art and play sessions for the kids living in the refugee camps (this is actually where I first met Alex, my now editor, he was volunteering over there too). The project runs in a children’s home. We run art sessions for the kids and we make greetings cards from some of the art they create. We sell the cards to raise funds for food, clothes, outings also school and building supplies. srilankacards.com

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Discover Emma’s work on www.emmaallen.org

Stève Albaret

LA TRAP SORT DU PIÈGE

LA TRAP SORT DU PIÈGE

En promotion pour son dernier disque, le rappeur Fabe se présente assez irrité sur le plateau de Taratata suite à la caricature faite par Nagui, Alain Souchon, Laurent Voulzy et Robert Charlebois. Sentant la gène, ce dernier consent que le rap montre parfois des « choses intéressantes sur le plan harmonique ». Nous sommes en 1995, pile dans l’âge d’or du rap. Si des classiques sortent à la pelle et que des artistes proposent des morceaux de grande qualité, certains étant mêmes des précurseurs comme Pharcyde ou plus tard Pharell, le style souffre toujours de sa répétitivité musicale, de ses connotations et de ses clichés contrastant avec la variété représentée par les trois chanteurs tentant un beatbox avec Nagui. On préfère quand même Souchon Sous les jupes des filles plutôt qu’au beatbox.

20 ans plus tard, le rap a muté et ringardisé son passé devenu objet de nostalgie et suscitant même un esprit réactionnaire à l’égard des nouveaux « atliens ». A coté d’artistes comme Kendrick Lamar qui réussit à renouveler un rap assez pur, la trap a fait son apparition grâce aux artistes du sud des Etats Unis qui ont su mettre leur originalité au service de leur musique. Finis New York et Los Angeles, Atlanta est l’épicentre du nouvel ordre. En même temps, Outkast avait déjà placé sur la carte la ville de Georgie, état pourvoyeur de culture depuis des décennies. Après avoir nourri le blues, la country ou le rock, le sud des Etats Unis court-circuitait déjà le rap dominant de l’axe east/west coast dans les années 90 avant de prendre de l’importance dans les années 2000 avec ce qu’on appelle le Dirty South, un style opaque pour les non-initiés mais qui bousculait les codes du rap traditionnel tout comme le Crunk, autre style qui fera le trait d’union vers l’accomplissement de la « trap music ». Ces courants seront boostés par les succès internationaux de Lil’Jon ou du label Cash Money qui impose Lil’Wayne, un rappeur dont le style et l’imagerie ne laissent pas de place au doute : les artistes du sud sont prêts à révolutionner le rap et surtout la musique en général.

D’abord amateurs, très « dirty », proche de la réalité « trap » (mot qui indique à l’origine le lieu de vente de drogue), des profils ont émergé et sont aujourd’hui les timoniers du style polymorphe qu’est la trap. L’excellent Mouloud Achour les a interviewés et qualifiés justement de rocks stars : Young Thug, Travis Scott et Future. Trois voix hyper-productives qui explosent les codes dans tous les domaines car ils ont totalement libéré le rap de ses clivages. Il chantent, rapent, articulent et désarticulent les mots, crient, changent de tonalités, se taisent, s’habillent de toutes sortes, portent des locks à la jamaïcaine, se griment et leurs vidéos, photos et sons autorisent les expériences les plus avant-gardistes, les réalisateurs s’en donnent à cœur joie 

Au niveau du son, les territoires explorés sont infinis, la musique assistée par ordinateur n’a pas de limites. La traditionnelle charleston ultra-rapide et les grosses caisses ne doivent pas cacher la réalité : les beatmakers composent parfois des mélodies défiant l’imagination qui, une fois arpentées par les interprètes stars, reprennent finalement le flambeau des Pink Floyd, Miles Davies, Queen, Beatles, Supertramp, Kraftwerk et autres artistes qui ont bousculé la musique mondiale en se servant de leur maîtrise pour expérimenter et ouvrir de nouvelles voies. Suivis par des gens comme Migos, 21 Savage, Fetty Wap, Post Malone, Gucci Mane et beaucoup d’autres, les grands de la trap contaminent les autres artistes à la fois par l’instinctivité et la précision de leurs interprétations (le nombre de collaborations explose : Miguel, Justin Bieber, The Weekend, Kris Wu…) et entrainent tout le monde dans un élan très actuel, novateur et universel : c’est la nouvelle chanson américaine.

Côté français, beaucoup ont saisi l’évolution mais n’ont pas su ou pu surfer sur la vague de liberté amenée par la nouvelle génération du sud des États Unis. Booba bien sûr a adapté ses sonorités comme Kaaris ou La Fouine. Au contraire, Kéry James ou Youssoupha perpétuent avec succès la veine traditionnelle du rap. Mais tous ces artistes étant déjà assez âgés, il faut attendre les promesses de jeunes pousses. Un peu comme Ghali et Liberato de l’autre côté des Alpes ou Damso côté Belgique, Vald tient la corde pour proposer quelque chose de différent et a l’intelligence et le talent de surprendre par son language, son raisonnement et son absurdité. En tout cas, il avoue lui-même admirer les têtes d’affiche de la trap. Robert Charlebois aime ça.

Stève Albaret

WELLES LYNCH SCORSESE : Entrer dans la légende

WELLES LYNCH SCORSESE : Entrer dans la légende

Il y a bien sûr du mauvais avec les « channels » américains, ils imposent des codes dans le monde entier et exportent souvent un « American way of Life » peu adapté aux autres pays. Mais force est de constater que ces derniers temps, Netflix et Showtime ont dépensé autrement leur argent, dans des projets susceptibles de faire rêver le cinéphile. Pourquoi ? Pour entrer dans la légende. 

Le néo mastodonte Netflix, facilitateur de la VOD, a récemment été pris la main dans le sac lorsqu’il a acheté les onéreux droits du nouveau film réunissant Scorsese et De Niro, une affiche capable de mettre en émoi n’importe quel amateur de cinéma, sans oublier que The Irishman devrait également réunir Joe Pesci et Al Pacino ! Soit un casting rêvé depuis des années par un public encore en alerte suite au grand film récent du cinéaste new-yorkais : The Wolf of Wall Street.

Depuis quelques années, Netflix produit l’excellent House of Cards qui le plaçait déjà sur la carte hollywoodienne avec son casting cinq étoiles (Spacey/Wright), ses partis pris scénaristiques et esthétiques et sa réalisation splendide. En achetant l’exclusivité de Black Mirror, Netflix poursuivait son goût pour les séries qui comptent. Il ne restait plus qu’à sortir le cinéma des salles et Almodovar de ses gonds. Okja, première attaque lors du dernier Festival de Cannes, pouvait être « ignorée », mais la deuxième sera être plus violente avec l’argument Scorsese, cinéaste légendaire, adulé et respecté. Reste à savoir ce qu’en pense Scorsese le cinéphile ? Toujours est-il que le nouveau film, dont le tournage est sur le point de débuter, devrait sortir en 2019 et offrirait à Netflix un statut comparable à Warner, Paramount ou 20th Century Fox, majors traditionnelles. Il se pourrait même que le film soit rentable étant donnée la côte des protagonistes.

Cerise sur le gâteau, on apprend que Netflix a réussi à démêler l’imbroglio du copyright sur l’un des derniers projets d’Orson Welles : The Other Side of The Wind. Film légendaire jamais terminé, il est en montage d’après les directives laissées par l’auteur de Citizen Kane. Peter Bogdanovitch serait également sur le coup, lui dont la proximité avec le cinéaste (voir l’incroyable livre d’entretiens « This is Orson Welles ») pourrait être précieuse pour arriver au film tel que l’aurait voulu Welles. Par cet investissement « léger », Netflix réussit également à se faire une place dans l’histoire du cinéma en ramenant à la vie une œuvre considérée perdue. Finir The Other Side of the Wind est un choix raisonné servant à façonner une image de marque prestigieuse et universelle à la fois.

Les vieux pots font les meilleures soupes : c’est ce qu’a dû se dire la direction de Showtime, « channel » réputé pour ses séries, quand l’idée leur est venue de finir la série Twin Peaks et de se frotter au grand David Lynch. Ils étaient prévenus et l’affaire a bien faillit tomber à l’eau, Lynch voulant imposer son contrôle artistique total. Heureusement pour nous, la saison 3 de Twin Peaks est devenue réalité et le cinéaste n’a rien perdu de son talent, lui qui ne tournait plus sérieusement depuis 2006 (Inland Empire). Mais quid de l’audimat ? Quand en 1990-91, une moyenne d’environ 10 millions de spectateurs se pressaient devant le petit écran pour chaque épisode, seulement 200 000 continuent de le faire en 2017. Mauvais pari pour Showtime ? Possible, car là où Netflix investit intelligemment en mesurant les risques, Showtime semble avoir cédé à une sorte de mécénat. Cependant, Showtime est une chaîne plus ancienne, traditionnelle et ancrée dans le PAF américain. Elle peut compter sur l’enrichissement de son catalogue et sur les différentes diffusions (direct, VOD, DVD) pour faire fructifier ce beau trophée à leur tableau de chasse, à la fois coup de com’, opération séduction et cadeau à tous les cinéphiles.

https://www.youtube.com/watch?v=ujDB5ao1JCg

Stève Albaret

ADAM MAGYAR : le temps, l'espace et les gens

ADAM MAGYAR : le temps, l’espace et les gens

Photographier, filmer … ou scanner. C’est la question posée par des sociétés telles que Matterport, promoteurs et développeurs de ces « nouvelles » techniques dont les essais laissent entrevoir les possibilités : énormes. Scan, plénoptique, VR, 360° : ce sont peut-être les clefs du futur de l’image dont le traitement devient de plus en plus virtuel et post-produit tout en offrant la possibilité de l’interactivité (voir les technologies développées par Fraunhofer ou Lytro). Mais pour quel point de vue ? Le point de vue est l’élément central de toutes œuvres : d’une narration, d’un récit, d’une photo, d’une fiction comme d’un documentaire. Les artistes doivent donc s’approprier les outils à disposition pour raconter leurs histoires. De l’Iphone de Wil Aime aux bricolages de Miroslav Tichý en passant par l’Imax de Christopher Nolan, chacun dompte son médium pour donner son point de vue.

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Le hongrois Adam Magyar, sorte de double moderne de Tichý, est peut-être le premier à s’être intéressé à l’application artistique du scan. C’est même un pionnier dans ce domaine puisqu’il n’a pas attendu que la technologie soit commercialisée pour y penser et surtout l’adapter à son point de vue. Si ses œuvres se relient à beaucoup d’autres allant des chronophotographies de Muybridge aux jeux vidéos de Arnt Jensen, elles sont singulières dans leurs techniques de fabrication qui offrent un regard neuf et très actuel sur le sujet de prédilection de Magyar : la foule. Recherche artistique et anthropologique, Magyar scanne afin de manipuler le temps. S’il a été ennuyé par la photographie conventionnelle dans sa jeunesse, force est de constater que les photographies de la série Urban Flow racontent grâce à la technique du scan une multitude d’histoires humaines dans le flot temporel, fini l’ennui.

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Pour arriver à un tel résultat, Magyar a d’abord sélectionné des lieux capables de lui offrir un passage continu à scanner et a ensuite conçu la technologie appropriée. Il retient alors la technique du photo-finish des courses, les sujets défilant devant le capteur comme une feuille dans un scanner. Il crée lui-même son matériel pour l’occasion afin de diminuer les coûts, les prix d’une caméra de type FinishLynx étant prohibitif. Il code également le programme, le capteur ne doit filmer qu’une portion d’environ 1 pixel de largeur à une cadence extrêmement élevée. Une fois en boîte, les fragments sont empilés et créent cette unique direction de la marche, illusion inhérente à la technique du scan, mouvement physique et symbolique habitant la photo finale tirée sur grand format en très haute définition dans un noir et blanc neutralisant la multitude des sujets en un flot homogène. La où une trilogie Qatsi accélère et ralentit le flot humain pour le percevoir, Urban Flow le condense et le dévoile.

adammagyar_amuf003Cliquez pour voir cette Tapisserie de Bayeux 2.0

Magyar pousse l’expérience artistique de Urban Flow pour arriver à Stainless, deux séries centrées sur la foule dans les métros des grandes villes (Paris, Berlin, New York, Tokyo, Shanghai, Hong Kong, Londres, Rome). La première partie de Stainless est une série photographique ressemblant à première vue à Urban Flow. Une différence de taille pourtant, la temporalité : si Urban Flow rassemble sur un tirage un flot humain continu dans une temporalité « normale » et perceptible, la partie photographique de Stainless montre l’instant imperceptible d’une rame de métro défilant à toute allure dans les couloirs sombre du réseau ferré souterrain. Soit une fraction de seconde figée de la vie d’individus partageant l’espace d’une boîte de tôle, stainless, inoxydable. Un peu comme les Wachowsky arrêtent le temps de leur Matrix, on note que le point de vue de Magyar est extrêmement précis, autant dans le choix des lieux : les fenêtres des buildings formant les lignes continues de Urban Flow et le noir du métro brouillant les pistes sur la temporalité et unifiant les séries et l’œuvre de Magyar par mimétisme ; son point de vue se distingue également et encore une fois par le besoin de techniques complexes et novatrices que Magyar invente au gré de l’inspiration.

https://www.youtube.com/watch?v=p6jF9qKzeq0

Tout d’abord il s’équipe d’une caméra dite « line scan » habituellement utilisée pour des contrôles de qualité en usine, sur des objets en mouvement rapide. Grâce à cela, il pourra scanner les trains. Plusieurs soucis techniques compliquent la tâche, tout d’abord la police qui l’empêche d’utiliser un trépied, qu’à cela ne tienne Magyar met tout son attirail dans son sac à dos (dont un ordinateur pour gérer la grande quantité de données) et filme à la main ce qui l’oblige à élaborer un programme corrigeant les distorsions également liées à la vitesse changeante des trains. Autre problème de taille : la lumière. Adam fabrique donc une cellule mesurant la lumière afin de repérer les meilleurs points de vue. Lumière toujours, il corrige en post-production le « flick » ou vibration de la lumière qui strille le scan des trains. Le résultat est bluffant.

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La deuxième partie de Stainless est peut-être le point d’orgue de l’œuvre de Magyar. Afin d’explorer au maximum la tension entre temps arrêté et le temps en mouvement, il obtient une caméra Optronis afin de filmer à des cadences extrêmes et se place cette fois à l’intérieur de la rame. Résultat indescriptible, voyez vous-mêmes. On attend la suite.

Liens utiles :

Excellent article de Joshua Hammer : https://medium.com/matter/einsteins-camera-88aa8a185898

Le site d’Adam Magyar : www.magyaradam.com

Stève Albaret

MIROSLAV TICHY : Bonne ou mauvaise caméra ?

MIROSLAV TICHY : Bonne ou mauvaise caméra ?

Miroslav Tichý (1926-2011) est un artiste tchèque qui mérite d’être connu. Inventeur de ses propres appareils photo bricolés avec des déchets, auteur de photos habitées par une irrépressible attirance vers les corps féminins, nous pensons que sa méthode de production artistique est extrêmement intéressante considérant notre époque de mégapixels, de haut débit d’informations et de logiciels. Tichý c’est l’histoire d’un homme incarnant l’anti-thèse de notre époque un peu folle. Une histoire qui trouve son sens aujourd’hui car nous pensons qu’au delà du produit de son art, sa posture d’artiste de la recup’ est symbolique d’un idéal très actuel, entre inégalités, gaspillage et course à la perfection. Pour en savoir plus, nous avons posé quelques questions à Marc Lenot, spécialiste de l’artiste.

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Tichý a été découvert tardivement parce que les gens hésitaient entre artiste et voyeur fou pour le qualifier ?

Tichý a été découvert tardivement parce qu’il ne voulait pas être « découvert » ; il ne montrait ses photos à quasi personne. Alors qu’il a parfois montré ses tableaux. Il vivait en ermite, avec assez peu de contacts. Vers 1990, Roman Buxbaum l’a « découvert » et a récupéré  (certains disent « s’est approprié ») ses photos et ses appareils. Buxbaum, étant psychiatre et intéressé par « l’art des fous » a voulu le présenter dans le cadre de l’art brut : une exposition, un catalogue, un article dans un grand magazine. Mais ça a été un échec, à la fois parce que Tichý résistait et parce que, au début des années 90, la photographie n’était pas acceptée comme art brut. Ce n’est qu’à partir de 2004, grâce au commissaire d’exposition Harald Szeemann, que Tichý a été connu et dans le contexte de l’art contemporain (Biennale de Séville).

Quelles étaient les ressources matérielles de Tichý?

Tichý vivait chez ses parents, sa mère est morte en 1990 ou 89. Il recevait une pension d’invalide car considéré comme handicapé mental par les autorités depuis son passage en hôpital psychiatrique vers 1950.

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Quelles étaient ces méthodes de fabrication?

Elles étaient très artisanales : il fabriquait ses propres appareils avec des rebuts récupérés, il développait ses films dans l’évier, les faisait sécher dans la cour de sa maison, il avait fabriqué un agrandisseur pour ses tirages; tout était fait très grossièrement, papier déchiré à la main, traces d’excès de produits de développement, empreintes digitales sur les films, et même une mouche qui s’était engluée là… De plus, il ne se souciait guère des tirages (peut-être une seule photo tirée par pellicule), les laissant traîner au sol, les tachant, s’en servant comme sous-bock ou comme cale de table bancale, certains mordus par les rats : de temps à autre il en prenait un, l’améliorait en redessinant en général les seins ou les fesses, et parfois l’encadrait de papier crépon ou de carton où il dessinait des motifs géométriques

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Comment prenait-il ses photos? Elles sont souvent floues et centrées sur les femmes qui l’obsèdent.

D’abord ce sont des appareils assez rudimentaires, monofocale. Ensuite, en général, il ne visait pas, mais cadrait au jugé ; enfin sa vitesse d’obturation était assez élevée, et les femmes bougeaient. Mais il ne faisait rien pour « améliorer » sa prise de vue, au contraire il jugeait que c’était bien mieux ainsi.

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La valeur artistique des photos, que l’artiste lui-même semble négliger, est-elle réelle?

Chacun son avis. Ma thèse est clairement que oui, mais certains critiques ou historiens ont du mal à accepter ce type de photographie.

L’artiste serait-il plus fascinant que l’œuvre?

Je ne le formulerais pas ainsi, mais il est certain que dans la notoriété, les deux sont indissociables aujourd’hui. En particulier Buxbaum a construit un récit autour de Tichý qui met en avant l’étrangeté du personnage autant, sinon plus que son œuvre, et beaucoup de conservateurs de musée ont pris le package tel quel, sans esprit critique. D’autres historiens devront travailler pour démystifier un peu ce récit. Si vous lisez l’allemand, je vous conseille le catalogue de Mannheim à ce sujet Die Stadt der Frauen.

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Pour finir, comment a t-il vécu sa notoriété soudaine et tardive?

Il a refusé d’être exposé mais n’a rien fait pour empêcher Buxbaum de le faire. Il a toujours dit que ça ne l’intéressait pas mais avec une certaine ambiguïté. Quand je lui ai rendu visite, il y avait chez lui un grand poster de son exposition à Zurich ; il m’a dit « moi je m’en fous, c’est la voisine, Jana, qui l’a mis là », il ne voulait voir personne, curateurs, journalistes, historiens … ce qui arrangeait bien Buxbaum, mais a quand même rencontré des gens qui ont su l’approcher. Mais quand il y a eu une exposition dans sa propre ville, il est, comme par hasard, tombé malade et a été hospitalisé, ce qui lui a permis de ne pas y aller…

Pour compléter cette introduction à un artiste peut-être plus représentatif de notre époque qu’on ne le croit, lisez absolument le livre de Gianfranco Sanguinetti sur lui, et regardez le film Worldstar de Natasha von Kopp (lien ci-dessous), c’est Marc Lenot qui le dit. Car il faudra bien démystifier le personnage pour comprendre l’homme et son œuvre.

 

 Stève Albaret

VENEZIA Football Club : L'image et la marque

VENEZIA Football Club : L’image et la marque

Venise c’est le Rialto, la Piazza San Marco, le carnaval, les masques, les gondoles … autant de raisons d’attirer le regard du voyageur et pourquoi pas celui de l’investisseur. Car le nom Venise est naturellement l’assurance d’une notoriété, d’un prestige et d’une renommée internationale pour qui réussi à l’exploiter et à l’exporter. Encore faut-il trouver un vecteur adéquat : le football masculin en est un. A la fois très mondialisé et très implanté en Europe, notamment en Italie (4e championnat européen mais longtemps 1er et doté d’une histoire et d’un palmarès extrêmement riches), l’idée qu’une ville au rayonnement international telle que Venise ne possède qu’une équipe d’amateurs surprend donc et les investisseurs se sont longtemps penché sur cette possibilité pas si folle de faire de la cité des Doges une marque internationale dans le domaine ultra-concurrentiel du foot européen.

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Dans le cadre d’un tourisme footballistique mondialisé, le Paris-Saint-Germain et Chelsea sont en partie des modèles à suivre pour le nouveau board américain du club vénitien. Le nouveau président du club Joe Tacopina, avocat new yorkais renommé reconverti depuis plusieurs années dans le calcio, a successivement fait partie des administrations américaines des clubs de l’AS Roma et de Bologna avant de flairer le rachat du petit poucet FCB Unione Venezia à des propriétaires russes n’ayant pas su développer le fort potentiel du club lagunaire. Comme il le dit lui-même, la Serie A est économiquement sous-évaluée, la faute sans doute à un conservatisme du football italien qui voit les Berlusconi ou Moratti céder difficilement les rênes sans garanties. Si accepter la mondialisation et le marketing au sein d’institutions sportives est vu comme un sacrilège par les tifosis, un club sans grande histoire ni palmarès comme Venezia est le lieu idéal pour expérimenter un système ultra-libéral qui se heurte souvent à la tradition. 21 juillet 2015 : profitant de leur entente avec le nouveau maire vénitien Luigi Brugnaro, le groupe d’investisseurs américains mené par Tacopina fait main basse sur le club pour une somme dérisoire à condition d’assainir des comptes dans le rouges et de payer les onéreuses inscriptions au championnat. Au final, quelques millions suffiront pour remettre le club en route, une broutille dans un secteur à la croissance constante.

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Afin de professionnaliser le club, deux grandes lignes directrices, intimement liées entre elles, vont être mises en place à commencer par le recentrement de la communication sur le nom « Venezia ». A peine arrivés, les américains « tuent » le FCB Unione Venezia alors en Lega Pro italienne (3e division) et recréent sur ses cendres le Venezia FC, choix de nom pragmatique afin de bénéficier de l’image de la ville. Ils repartent de la Serie D (4e division). Les tifosis de Mestre grognent, le nom original représentait la fusion de feu leur équipe avec le Venezia en 1987, mais les couleurs restent les mêmes : « arancioneroverde » pour l’orange de Mestre et le noir et le vert de Venise. S’en suit une profonde réorganisation de l’identité du club, passant obligatoirement par un logo mettant en évidence l’appartenance vénitienne. On notera la présence des seules écritures « Venezia FC » dans une police plus épaisse mélangeant les intemporelles capitales d’imprimeries à empattements avec de discrètes séparations rappelant les lettrages militaires (stencil) et trahissant peut-être un peu la présence de décideurs américains. Les mentions sont accompagnées du Lion de St Marc, symbole traditionnel de la ville comme du club, qui fait désormais face aux spectateurs et à ses nouvelles ambitions. Les curieuses dominantes blanches de l’ancien logo sont oubliées au profit du noir traditionnel ornée d’orange et de vert, le blanc restant ayant un rôle purement fonctionnel puisqu’il améliore la lisibilité. Un choix qui sonne d’autant plus juste à l’heure où la grande Juventus de Turin opte pour un logo sans rapports avec son histoire ou sa ville. A partir de ce nouveau blason, une charte graphique reconnaissable, à la fois neuve et en accord avec l’identité revendiquée par la « tifoseria », va envahir la communication du club et la rendre efficace. La faible mise de départ des investisseurs et le classement sportif en bas de la hiérarchie permettent de mettre le paquet : site internet flambant neuf et supports de communication multi-platformes mis en place par l’entreprise génoise spécialisée Dpsonline, community manager (facebook, twitter, youtube et instagram fonctionnent à plein régime), CEO (marketing domestique), présentation en grande pompe, bus et voitures au couleurs du club … Le noir immaculé, possible anti-thèse du blanc madrilène dans l’utopie américaine, tape à l’œil de ceux qui croisent le lion orange, noir et vert. Voyez donc la différence éclatante entre le grand Parma, équipe dotée d’un magnifique palmarès mais sortant d’une faillite sans précédent l’ayant condamnée à la rétrogradation, et le Venezia, promesse sans cesse déçue (une coupe d’Italie en 1941, plusieurs championnats de divisions inférieures et des ambitions faisant le yoyo).

L’histoire nous dira si les deux clubs se retrouveront en Serie A

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Si le FC Barcelone est devenu une marque mondiale et rentable, c’est avant tout grâce aux résultats sportifs. Le travail sur l’image du Venezia FC devait donc s’accompagner d’investissements importants sur le terrain ce qui constitue aujourd’hui la deuxième ligne directrice d’un projet qui commence à porter ses fruits. Actuellement, le Venezia FC est remonté en Lega Pro (3e division) et se trouve en première position de la poule B ce qui lui donnerait en fin de saison un accès direct à la rude Serie B (2e division) sans passer par d’épuisants play-offs. Le Venezia est aussi en lice en Coupe d’Italie de Lega Pro. Tout cela est rendu possible par une gestion cinq étoiles des ressources humaines : dans la continuité tout d’abord en gardant le directeur général Dante Scibilia ainsi que les employés fixes du club puis dans la nouveauté en s’attachant les services du très réputé directeur sportif Giorgio Perinetti qui a su recruter intelligemment afin de constituer un groupe aguerrit autour du vétéran Domizzi, défenseur de Serie A durant quasiment toute sa carrière, il a naturellement hérité du brassard de capitaine. La recherche de l’entraineur était également importante tant le « Mister », comme on l’appelle de l’autre côté des Alpes, est une figure prépondérante dans le très tactique « calcio » italien et une interface médiatique qui en fait le visage et le cerveau du club. Quoi de mieux qu’une légende du football comme Filippo Inzaghi, au chômage après une première expérience trop complexe sur le banc du grand AC Milan, pour remplir le rôle ? Cette signature représente un avantage sportif indéniable ainsi qu’un coup de projecteur national et international sur le club qui place une authentique star en tête de gondole d’un club encore en 3e division ! Sa mise en scène aux côtés de Tacopina dans la communication du club renforce la crédibilité de l’italo-américain et des riches investisseurs qui peuvent se frotter les mains.

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L’expansion se poursuit sans relâche : le club s’est déjà ouvert au football féminin dont l’importance augmente année après année, il s’implique dans la vie quotidienne locale, il se met en valeur dans les médias avec des articles et interviews entre autres italiens, français et américains qui montrent une volonté d’établir sa renommée en Italie et en Europe mais également aux Etats-Unis où des petits groupes de supporters ont été créés à partir du Banter club à Brooklyn, devenu officiellement bar de supporters « arancioneroverdi ». Les réseaux sociaux sont incontournables dans cette quête internationale alliant football et tourisme. Le club fait parler de lui, et espère bien sûr rejoindre l’élite au plus vite afin de tirer davantage profit d’une image et d’un nom attirant plus de 20 millions de touristes chaque année dans une ville comptant 300000 habitants. Pourtant, une épineuse question reste en suspend : quid du stade ? L’actuelle enceinte recevant les matchs du Venezia est le très modeste Pier Luigi Penzo. Faisant partie des plus vieux stades italiens avec 104 ans d’âge, des plus vétustes également malgré un rafraichissement récent, il est très petit et possède l’inconvénient d’être très difficile d’accès car appartenant au centre historique, du coup il est souvent vide. Déjà validé par le maire qui voit certainement d’un bon œil le retombées économiques futures, le judicieux projet de Tacopina serait la construction à Tessera, à côté de l’aéroport, d’un nouveau stade d’une capacité de 25000 places avec pour couronner le tout un toit en verre de Murano. Les spécialistes du tourisme de la « Reine de l’Adriatique » se frottent déjà les mains comme le montre le partenariat entre le club et l’AVA, association des hôtels de Venise. Mais tout cela nous ramène finalement à l’ancienne présidence du fameux Maurizio Zamparini, connu pour ses folies et ses changements d’entraineurs au Palermo, qui achetait le Venezia en 87 pour l’amener en Serie A 10 ans plus tard. Il abandonnait finalement le projet sportif vénitien face à l’impossibilité de construire un stade pérennisant dans le dur une équipe au nom prédestiné à briller. Le Venezia sombrait alors pour ne relever la tête qu’à l’été 2015, quand le club a finalement su utiliser l’image de marque de Venise. La promesse sera t-elle tenue ?

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Stève Albaret

JEAN-PIERRE MELVILLE : Cinéaste de renom

JEAN-PIERRE MELVILLE : Cinéaste de renom

La rareté des travaux consacrés au cinéaste Jean-Pierre Melville ne permet pas assez de rendre compte de l’importance de sa cinématographie. A l’image d’un Francesco Rosi quasi-inventeur du « film enquête », Melville restera lié à ce qu’on appellera le « film d’hommes ». Référence pour des cinéastes du calibre de John Woo, Martin Scorsese ou Jim Jarmusch, des membres de la Nouvelle vague comme lui cinéphiles, il a su développer un style singulier avec ses personnages masculins sombres, sa violence abstraite et ses références américaines comme le rappelle son amour pour le film Asphalt Jungle de J. Huston. Personnage incontournable du cinéma français des années 60, ses obsessions ont forgé sa fiction. Et ça saute aux yeux dans ce portrait réalisé par André S. Labarthe :

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L’existence des Studios Jenner, possession de Melville, souligne combien le réalisateur était dédié à sa vision. Si en début de carrière son style n’était pas encore affirmé comme le montrent sa collaboration expérimentale avec Jean Cocteau ou son mélodrame Quand tu liras cette lettre, l’intimiste Le silence de la mer, son premier long-métrage adapté de Vercors, peut très bien servir de préambule à son œuvre : un film marqué par la guerre et déjà un film d’hommes. Ce huit-clos, parfait pour faire ses armes et ses preuves à moindre coût, appellera d’autres films à la direction ascétique, reflet de la destiné tragique du héros melvillien dans un univers européen teinté de références américaines. Mis à part Léon Morin, prêtre qui renoue avec l’intimisme de son premier film, la filmographie de Jean-Pierre Melville parle de policiers, de truands, de combattants et de la mince frontière qui les sépare et entraîne leurs morts. Des figures austères, des zombies sans passé et sans famille qui ne peuvent qu’être campé par des acteurs de haut niveaux, des têtes d’affiches comme Delon, Ventura, Belmondo, Volontè, Meurice, Périer, Reggiani, Montand, Vanel… A cette liste on peut ajouter le méconnaissable Bourvil, dont l’usage à contre emploi révèle la créativité du cinéaste. A une époque ou les stars françaises attirent le public, le cinéma de Melville arrive à point nommé pour se servir de cette célébrité comme d’une accroche affective pour des spectateurs en quête d’identification surtout dans un genre aussi balisé que le policier. Là où Melville surprend c’est dans sa démarche presque bressonienne dans sa direction d’acteurs. D’ailleurs, le fait qu’un cinéaste comme Fassbinder se soit intéressé à son travail fait sens, surtout quand on connait la propension de l’allemand à repousser le spectateur hors du film en l’empêchant de s’identifier aux personnages par des procédés variés : underplay, absurde, profil des personnages. Nous devons regarder de loin, analyser sans se laisser emmener par la fiction. Des caractéristiques qui ressemblent étrangement à celles de Melville et qui font de ce dernier un créateur tout à fait atypique qui a pu faire des films de genre novateurs et contrôler leur production grâce au respect gagné auprès des grands acteurs de l’époque.

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S’il est plus léger que les autres (au moins dans au début de l’histoire), Bob le flambeur initie la série de films d’hommes comme « genre » indissociable de Melville, d’autant que sa réalisation correspond à la mise en service des Studios Jenner et donne du coup le sentiment d’un Melville libre de faire ce qu’il veut. C’est en effet à cette époque qu’il achète ce hangar du 25 bis rue Jenner dans le 13e arrondissement de Paris. Il centralise ainsi sa production et sa vie privée ce qui lui permet d’avoir les meilleures conditions pour son travail créatif. Après la parenthèse Deux hommes à Manhattan qui « débloque » le fantasme américain du cinéaste, et le déjà cité Léon Morin, prêtre, Melville réalise Le Doulos, classique du polar français qui entérine carrément la patte d’un cinéaste indépendant dont le polar ou film noir devient l’unique terrain de jeu.

http://www.vodkaster.com/extraits/cercle-rouge-arrivee-a-gare/488058

Suivent les célèbres L’aîné des Ferchaux, Le deuxième souffle, Le Samouraï, L’armée des ombres, Le cercle rouge et Un flic. Des films qui se ressemblent : l’homme est central, il est stylisé et devient ce personnage grave certainement inspiré par les années militaires de Melville. Si le noir et blanc présente des avantages naturels pour le polar, Melville utilisera aussi la couleur avec brio pour magnifier ce héros tragique et sombre au centre de ces films. Son dernier film, Un flic est désaturé, bleuté, il en devient presque abstrait pour imager la négativité. En grand formaliste, Melville ira jusqu’à imposer des sortes d’uniformes à ses personnages masculins, panoplie chapeau et imperméable, ce qui renforce la confusion entre les belligérants et qui a pour bienfait d’annuler tout manichéisme. Cela inspirera Tarantino pour son Reservoir Dogs. Peut-être est-ce ça le film d’hommes au fond, un aspect caricatural parfois mais une épaisseur humaine qui permet aux personnages d’être très nuancés ce qui évite les poncifs et enrichit automatiquement l’intrigue. Tous ont un poids dans l’intrigue et sont autant de potentielles tensions autour desquelles pourraient s’articuler l’histoire. Un film comme Le cercle rouge possède 4 personnages principaux par exemple. Ces personnages de fiction à la fois charismatiques et complexes reflètent finalement assez bien le cinéaste qui aura tracé sa route hors des chemins balisés. Marqué par la guerre, il aura à cœur de réaliser ses fantasmes dans le cadre de valeurs viriles. Il a d’ailleurs déclaré avoir eu des rapports fraternels avec des SS et faisait partie d’un comité de censure cinématographique. Fidèle à ses idées contradictoires qui faisaient le sel de son cinéma à la fois novateur et universel, il ne s’est jamais laissé abattre par les difficultés. Il continuera d’ailleurs à aménager sa vie en fonction de son œuvre après l’incendie de ses studios en 67. Malheureusement sa carrière s’arrête brutalement en 1973. Une crise cardiaque à 55 ans.

http://www.ina.fr/video/CAF94008877

Un peu oublié, il est important qu’un tel cinéaste reprenne place dans la mémoire collective française.

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Stève Albaret

 

Tapisserie de Bayeux - Scène 23 : Harold prête serment à Guillaume

LA TAPISSERIE DE BAYEUX : Expérience cinématographique

La « Telle du Conquest », plus connu sous le nom de « Tapisserie de Bayeux », est le meilleur film à l’affiche dans la ville du même nom. Une histoire de parjure où, à la mort du roi Édouard d’Angleterre, Harold s’assoit sur le trône pourtant promis à Guillaume le Bâtard, Duc de Normandie. Une histoire légendaire menant à la bataille d’Hastings le 14 octobre 1066 et à l’avènement de celui qui devient Guillaume le Conquérant, le seul étranger étant parvenu à prendre les terres anglaises. La tapisserie est alors commandée pour conter cette histoire et célébrer la naissance d’un personnage historique devenu mythique. Le commanditaire, certainement l’évêque de Bayeux Odon de Conteville, demi-frère de Guillaume, est lui-même présent sur la tapisserie d’environ 70m de long pour 50cm de large, brodée à la main certainement dans un atelier du Kent, comté anglais qu’Odon reçu après la bataille. Il est donc probable que le meilleur film de Bayeux ait bientôt 1000 ans.

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Car oui, c’est bien entre 1066 et 1097 (mort d’Odon), que la fabuleuses tapisserie à été conçue. Témoignage rare de l’époque moyenâgeuse, c’est avant tout une œuvre étonnamment complète malgré son âge, qui a traversé presque sans embuche les époques, passant de la cathédrale de Bayeux, où elle était gardée initialement et montrée à chaque début de Juillet, à l’ancien grand séminaire de la ville où elle est actuellement. Redécouverte dans les années 1720, elle n’était alors considérée que comme une vieille relique sans intérêt jusqu’à ce qu’un voyageur anglais, Andrew Coltée Ducarel, ravive son intérêt. Elle a survécu miraculeusement à la guerre de Cent Ans, aux pillages des Huguenots, à la Révolution et à la 2nde Guerre Mondiale avant de revenir à Bayeux en 1945. D’abord conservée dans des conditions passables, l’œuvre bénéficie désormais d’un traitement optimal qui, au delà de simplement conserver, permet au visiteur/spectateur de profiter pleinement du spectacle offert par le chef-d’œuvre inscrit au registre Mémoire du Monde par l’UNESCO.

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Le film peut alors débuter : nous sommes plongés dans l’obscurité devant cet écran ultra-panoramique formant en U d’environ 70m et conservant la « Telle du Conquest » sous une lumière uniforme et chaude permettant de saisir chaque détail. La forme de U donne un sentiment d’infini à la visite et notre déplacement de la gauche vers la droite permet de suivre l’histoire de manière chronologique. Le découpage du film que nous regardons se fait grâce à une numérotation des scènes et à divers éléments dessinés tels que des arbres et des tours. Des écritures latines donnent l’explication de chaque scène mais nous suivons l’histoire grâce à un audio-guide particulièrement bien conçu qui décrypte les éléments principaux de l’œuvre tout en nous immergeant dans l’histoire tout en suivant le rythme de nos pas. La scénographie et l’audio-guide nous aident à profiter de la « Telle du Conquest » de la même manière qu’une salle de cinéma permet de voir un film dans les meilleures conditions : c’est une véritable expérience cinématographique. Le film se déroule à mesure que nous avançons, ses personnages sont caractérisés, péripéties et climax sont présents. L’histoire est donc très bien structurée et représentée malgré une technique rudimentaire mais appliquée avec maestria (quatre points de broderie sont utilisés pour des dessins ressemblant parfois à de la BD). L’œuvre millénaire communique sa puissance à travers des nuances de couleurs savamment étudiées donnant de la profondeur au dessin. Il y a aussi une multitude de détails qui rendent l’observation passionnante. En guise de confirmation à notre émerveillement, mieux vaut écouter le maître du cinéma Jean Renoir disséquant l’histoire de la tapisserie en prenant comme référence absolue la « Tapisserie de la reine Mathilde » autre nom donné à la « Telle du Conquest » :

Nous arrivons à la fin du film millénaire : Guillaume, victorieux retourne en Angleterre afin de monter sur le trône. Mais ce couronnement, qui pouvait être le « happy end » naturel, n’est pas représenté. La fin est donc ouverte, ce qui peut sembler dommage mais qui trouve son sens grâce à la légende de Guillaume le Conquérant, un personnage dont le nom est encore connu de tous. C’était sans compter sur les habitants de l’île anglo-normande d’Alderney (Aurigny en français) qui en 2012 élaborent une nouvelle tapisserie reprenant à l’identique les techniques utilisées il y a 1000 ans. Quatre nouvelles scènes sont donc brodées à l’ancienne : le dîner sur le champ de bataille d’Hastings, la reddition des nobles de Londres, le couronnement de Guillaume et, pour finir, l’acclamation du nouveau roi par le peuple anglais (à noter : l’apparition de la Tour de Londres, anciennement Tour Blanche, construite en 1078 par le Conquérant). Il faut donc saluer ce travail adoubé par le musée de Bayeux qui, à juste titre, le considère comme une suite légitime. Héritant de la magie de sa grande sœur, cette nouvelle tapisserie ne manque pas de relancer la légende de la « Telle du Conquest » ainsi que d’offrir un pont temporel de presque 1000 ans nous permettant plus intensément d’être le spectateur d’un véritable chef-d’œuvre de cinéma.

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Site dédié à la « Telle du Conquest » : http://www.bayeuxmuseum.com/la_tapisserie_de_bayeux.html

Site dédié à sa suite : http://www.alderneybayeuxtapestry.com/

Stève Albaret